Non era notte quella notte. Le macchine scorrevano rade lungo il canale, qualche bottiglia abbandonata brillava alla luce dei fari che sfiorava l’asfalto nel silenzio. La città, quella notte, non era.
Chun Cheng, James Leclerc, Johan Tatard e gli altri. Sette ombre, sette immagini vuote, proiettate sul marciapiede dai lampioni, sette fantasmi neri, vacui, inutili. Un solo branco, un solo pensiero esacerbato dal nulla, coltivato con la rabbia del pregiudizio, dell’idiozia, dell’incoscienza. Le orecchie piene di suoni da poco spenti, musica che non è, parole che non sono, un io sovraumano cullato da nenie violente che percuotono il vuoto di corpi troppo grandi. Chun Cheng, James Leclerc, Johan Tatard e gli altri camminano, ridono, si spingono saltano e piroettano, lanciano parole violente ad un mondo che non conoscono, che non deve esistere, che loro, adesso, tra poco, vorrebbero distruggere. Si credono felici, potenti, fieri, marciano compatti il passo dell’oca. Ma in realtà non lo sanno, non possono saperlo, non vogliono saperlo. Chun Cheng, James Leclerc, Johan Tatard e gli altri ormai non sono.
Sdraiato sulla panchina Idrissa fugge dall’oggi, nascosto nell’alcol, per un attimo, per una sera. Idrissa dorme e forse, vuol dimenticare. I sogni si perdono in ricordi lontani mescolandosi al sorriso di un bambino. Il suo sorriso, quello di suo figlio, che dorme e cresce in una terra che diventerà sua. Dietro le palpebre chiuse passato e presente si mescolano cercando un futuro.
La panchina è scomoda, il legno rompe la schiena. Idrissa è svegliato dal vento che porta delle risate lontane. Idrissa li vede. Idrissa non sa cosa fare. Idrissa ha paura, sa che la sua pelle ha un altro colore, sa che forse dormendo non lo noteranno, cammineranno, se ne andranno lontano. Le palpebre chiuse e i muscoli contratti, Idrissa vorrebbe non essere, ma Idrissa inesorabilmente è.
Chun Cheng, James Leclerc, Johan Tatard e gli altri vedono un uomo, un uomo nero. Vedono la causa di tutti i mali che dorme ubriaca sdraiata sulla panchina, vedono uno dei tanti, tutti uguali, che portano sul volto la stessa faccia, dalla cui bocca esce la stessa lingua scomposta e incomprensibile. Eccola lì, la feccia che riempie i quartieri in cui nessuno va, e da cui nessuno deve uscire. Eccolo quello che sporca il loro paesaggio, che ruba il loro lavoro e le loro donne, che approfitta della loro grande ospitalità senza piegarsi alle loro leggi, senza voler essere il loro schiavo silenzioso. Gli sguardi vitrei del nulla fissi sull’uomo nero, Chun Cheng, James Leclerc, Johan Tatard e gli altri odiano.
Adesso anche Idrissa ha gli occhi aperti, ma Idrissa pensa. Pensa che tra poco il suo volto sanguinerà, si gonfierà, cambierà forma e colore, ma sa che quando rivedrà suo figlio tutto sarà dimenticato.
Le parole si trasformano in grida, i sorrisi in insulti. Chun Cheng, James Leclerc, Johan Tatard e gli altri strattonano l’uomo nero, lo obbligano ad alzarsi, lo spingono verso il bordo del canale. Idrissa adesso vola nell’aria sopra l’acqua. Idrissa non sa nuotare, lo ha ripetuto, bisbigliato, lo ha gridato più forte che poteva. Idrissa vola. Idrissa cade nell’acqua e ha paura, una paura che lo prende al ventre.
Chun Cheng, James Leclerc, Johan Tatard e gli altri guardano l’uomo nero che annaspa, ridono, adesso sono davvero felici e scappano, corrono a perdifiato perdendosi nella città. E intanto Idrissa affonda, il freddo dell’acqua lo circonda. Idrissa adesso sa che il suo sorriso sarà quello di suo figlio. Idrissa era. Idrissa non è più. Chun Cheng, James Leclerc, Johan Tatard e gli altri non sono mai stati.