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Calci, pugni, schiaffi, una girandola di gesti che colpiscono aria, ossa, carne. Volti emaciati, denti che cadono sull’asfalto, zigomi tumefatti, il sangue cola dal naso. Corpi che saltano e si inseguono, il rumore sordo di un pugno nello stomaco, il rumore secco delle mascella percossa, urla e grida che strillano. Insulti, parole incomprensibili, respiri concitati. Rauchi gemiti d’affanno. Barcollano e cadono, raggomitolati si proteggono, conchiglie fragili nella tempesta. Si rialzano, vacillano, lo sguardo perso nel vuoto rigato d’umiliazione.

Le fila si ritirano, si riorganizzano, si fronteggiano. Una danza nervosa che precede un nuovo scontro. Si guardano e lanciano parole che si urtano e rimbalzano, che colpiscono con vigore come schiaffi portati da lontano.

In alto, sulla torre della stazione, la lancetta dell’orologio vibra un nuovo minuto. Mamadou si avvicina alla morte, ma non lo sa. Kamel tra poco diventerà un assassino e lui, adesso, lo sa. Mamadou urla alle ombre, cerca le parole, si interpone, spinge, separa i corpi sudati. Kamel osserva, sente la rabbia ma lui, le parole, non le ha, sente l’impotenza, il turbinare del vuoto nel vuoto. Mamadou è spaventato, si agita, piange l’inutilità del branco che difende l’onore sporcato da quelle risate sguaiate dopo la caduta in bicicletta. Kamel ignora la certezza della propria stupidità. Mamadou vuole scacciare l’idiozia.

Bocche spalancate, volti lividi di rabbia e paura si voltano improvvisi, schivano, attaccano, colpiscono. Si ritirano veloci e ritornano, si muovono come corpi divisi, protesi in avanti e pronti alla fuga. Si scontrano, si mescolano, si confondono in un groviglio di versi senza peso, leggeri, vacui, superflui. Mamadou ruota su se stesso, spinge in senso contrario, impreca, scongiura, inciampa. Scivola. Le scarpe da ginnastica bianche e oro si macchiano di rosso. Mamadou sta morendo. Kamel è ormai un assassino.

Il tempo è fermo, solo la lancetta dell’orologio, in alto sulla torre della stazione, vibra un nuovo minuto. Mamadou prova dolore, guarda il suo sangue spandersi sull’asfalto. Kamel si agita con gesti confusi, urla solitario e guarda i compagni, figure immobili, inebetite e vane. Nessuno pensa, la paura di se stessi è più forte dell’onore. Mamadou non respira, Kamel ripiega il coltello e fugge nel buio della città.

Mamadou​ detto Moustik

Angolo Boulevard Diderot | Rue de Bercy

14 Aprile 2009.

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